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Prometheus

Una bella e divertente recensione del pessimo Prometheus fatta da Matteo Bittanti sul blog di Wired

Non è un disastro di epiche proporzioni, sullo stile di Avatar, ma Prometheus delude su vari fronti. Quasi tutti, per essere sinceri. Indico di seguito alcune delle ragioni che compromettono questo pseudo-prequel diAlien. Alcune, inevitabilmente, presentano i caratteri dello spoiler. Pur non rivelando alcun elemento della trama, menzionano rilevanti aspetti narrativi. Lettore avvisato…

1) Il problema intrinseco a ogni prequel è che la narrazione procede inesorabilmente verso una condizione già nota al pubblico. Come tale, non fornisce nuove informazioni, ma si limita, tutt’al più, a fornire elementi contestuali che rendono possibile un’interpretazione alternativa di eventi noti. In questo caso, l’ossessione per l’esplicazione totale riduce invece di espandere il racconto originario. Mi spiego meglio…

2) …Il problema intrinseco a questo prequel in particolare è che soffre della sindrome di un’altra produzione cinematografica discussa in precedenza: La Cosa (Matthijs van Heijningen, 2011), che in quel caso aveva l’aggravante di essere il prequel di un remake. Un problema trascurabile riguarda quello delle “scene fotocopia”. Prometheus riprende/ripropone almeno tre situazioni già messe in scena da Alien (1979) innescando quel bizzarro fenomeno di deja vu cinematico che contraddistingue la condizione spettatoriale contemporanea per cui ogni “nuova” visione è, in realtà, una re-visione. Questa sensazione perturbante affligge non solo gli eventi, ma la natura e le azioni dei personaggi in quanto tali, in particolare della protagonista, la dottoressa Elizabeth Shaw (Noomi Rapace), che emula/simula/reincarna Ripley (Sigourney Weaver) e di David (un grandioso Michael Fassbender), clone dell’intramontabile Ash/Bishop (Lance Henriksen). Nonostante l’aplomb di facciata, gli androidi perdono la testa quando meno te lo aspetti…

A questo punto, auto-plagiandomi e auto-clonandomi, vorrei suggerire che Prometheus esemplifica un problema assai più grave: l’ossessione per il completamento di ogni narrazione, vera patologia della produzione culturale contemporanea. Incapaci di creare nuove storie e scenari differenti, ci limitiamo a tappare i buchi, estrapolando ed ampliando i dettagli irrisolti di racconti familiari attraverso prequel o spin-off. Siamo condannati a ripresentare i medesimi eventi con minime variazioni sotto forma di remake. I geni del marketing usano un termine paradossale come re-imagineering per descrivere – e insieme legittimare – questa pratica. In altre parole, abbiamo smesso di raccontare. Ci limitiamo a re-immaginare un artefatto culturale, brand o, [sigh] franchise. Prequel e spin-off forniscono dettagli per lo più marginali, secondari e trascurabili al codice sorgente – il racconto primario, la matrice. Il sequel non aggiunge, semmai sottrae. Prendiamo The Matrix. I due inutili seguiti hanno diluito l’impatto dell’originale con un eccesso di narrazione che ha finito per banalizzare una premessa affascinante. Indirettamente, Prometheus danneggia l’aura diAlien. E questo è problematico, almeno per il sottoscritto.

Secondo il critico musicale Simon Reynolds, l’impasse para-nostalgico della condizione attuale è riconducibile all’ingombrante coesistenza del passato nel presente, alla sovrabbondanza di detriti della popular culture nel contemporaneo, dalla febbre degli archivi online (Derrida), dalla cultura del revival permanente (McLuhan)- il caso paradigmatico è YouTube. La retromania è una zavorra che ci impedisce di prendere il largo, di allontanarci dalla riva per esplorare nuovi mari, scoprire lande vergini. In apparenza, un sequel ci fa avanzare. In realtà produce una retrocessione, in quanto rimanda inevitabilmente al testo “originale”, dunque al passato. Un sequel fa un passo avanti e due indietro. Un sequel procede verso il futuro guardandosi alle spalle. Dunque, recede. Tutti i sequel soffrono della sindrome dello specchietto retrovisore discussa da Marshall McLuhan. Il prequel, da parte sua, è esplicitamente passatista: non procede, ma premette. Non promette, ma ri-mette in scena, in campo, in gioco. Rimettere è sinonimo di vomitare. Ri-mettere è un po’ ruminare e ruminare qui è usato in senso metaforico: rimettiamo (in gioco) per ruminare, ri-pensare, ri-vedere. Più che un presupposto, un prequel è una supposta, nel senso che impone una fruizione retro. Fredric Jameson aveva ragione: il Tardo Capitalismo è ossessionato dall’impeto nostalgico. Il web 2.0 è pura cosmesi: gli anni Novanta non sono mai finiti. Lo dimostra la nostra popular culture.

3) “To drop the ball” è un’espressione americana usata per indicare il fatidico momento in cui un giocatore di football si lascia sfuggire la palla ovale, causando intuibili conseguenze sull’andamento dell’incontro (leggi: epic fail). C’è un punto preciso di Prometheus in cui Ridley Scott fa cadere la palla. In quel momento, il film sostanzialmente si sgonfia, implode su se stesso, esattamente come era successo al Danny Boyle di Sunshine. Tutti i cliché che erano rimasti annidati nel ventre del film esplodono sullo schermo e no, non è un bello spettacolo. Gli ultimi quindici minuti sono davvero inguardabili, a tratti imbarazzanti, e annullano i primi quindici a bordo dell’astronave deserta, invero sublimi. Prevedo che i fans rimonteranno parti del film, come avevano fatto quelli di Guerre Stellarieliminando Jar Jar Blinks (vi ricordate di Star Wars: The Phantom Edit?). E posso anticiparvi che cancelleranno il tragico dialogo tra Elizabeth e il Capitano Janek con quel sottofondo musicale che fa il verso a Yanni.

4) Prometheus è massicciamente derivativo. A parte il rapporto incestuoso con gli altri episodi della serie di Alien e le innumerevoli somiglianze con il racconto di Lovecraft, “Alle montagne della follia” (1936), a livello narrativo ed estetico il film presenta debiti evidenti nei confronti della citata Cosacarpenteriana, del suo prequel/remake (quello del 2011, per intenderci) e dell’Avatar di James Cameron. Mi limito ad osservare che le interfacce grafiche dei computer del 2093 sono state messe a punto dalla stessa azienda che ha installato i computer dell’astronave parcheggiata su Pandora. E che il proiettore Pico del futuro è un cubo di Rubik. E gli ologrammi utilizzano la medesima estetica degli hack di Microsoft Kinect (tipo questo). La privacy? Come sappiamo, si è estinta all’inizio del ventunesimo secolo dopo l’avvento di Google e Facebook, ma nel futuro, persino i nostri sogni sono di pubblico dominio… Le tute degli astronauti? Un omaggio a 2001: Odissea nello spazio, ma nel contesto pataccoso, il rimando è quasi offensivo. A proposito di estetica: sconsiglio caldamente la visione della versione in 3D. La qualità dell’immagine è terribile. Se c’è un film che condanna la visualizzazione tridimensionale all’oblio, è proprio Prometheus.

5) Mi manca terribilmente Dan O’Bannon. La fantascienza ha perso un gigante. Ci restano i nani. Damon Lindelof, l’uomo che ci ha preso in giro milioni di spettatori per anni con Lost, promette di danneggiare anche la saga di Alien. Aspettatevi una marea di sequel e un finale piatto, fra dieci anni, che risponderà a tutte le domande sollevate da Prometheus (in realtà, una sola) in modo tragicamente banale. I dialoghi sono terribili. Le disquisizioni “filosofiche” tra i vari personaggi mettono in luce tutti i limiti degli sceneggiatori. In alcuni momenti, rasenta i livelli di Event Horizon (Paul W.S Anderson, 1997, in italiano, Punto di non ritorno). La sovrabbondanza di buchi e sbandamenti a livello di scriptlasciano presagire almeno dodici versioni in blu-ray e DVD per i prossimi quindici anni, Director’s Cut con un’ora di materiale extra, sottotrame e filmati “inediti” che alimenteranno un fiume di Super Collector’s, Extra Uber Edition etc.. Nella versione distribuita nelle sale, Scott usa i personaggi come se fossero gli avatar interscambiabili di un videogame: recitano due battute e poi scompaiono. Come in Lost, ci sono tre figure chiave e un mucchio di gregari che appaiono sulle scene senza alcuna introduzione/spiegazione/giustificazione (in genere, per essere eliminati in pochi minuti). Il fenomeno è irritante. Damon Lindelof incarna la mediocrità del cinema americano di cassetta. Grazie al suo “contributo” Scott appare, nei momenti peggiori del film, indistinguibile da Michael Bay o dal George Lucas. Con Guerre Stellari, Lucas, ha trasformato la space opera in soap opera tout court: momenti pregnanti del tipo “Darth Vader è il padre di Luke Skywalker!” ricorrono in Prometheus con irritante frequenza. Preparatevi dunque allo Scott di Robin Hood, A Good Year American Gangster. Non certo allo Scott di Blade Runner [nota mentale: l’idea di un sequel dell’opera para-dickiana, a questo punto, mi terrorizza].

6) A un certo punto, il cyborg David domanda a un essere umano: “Perché mi avete creato?”. La risposta arrogante dell’uomo fatto di carne e ossa è significativa: “Perché possiamo farlo”. La battuta è impregnata di gravitas meta-referenziale. Durante la visione mi sono domandato a più riprese perché Ridley Scott abbia prodotto un film del genere. La risposta, ovviamente, è che “Perché può farlo”. Ora, il fatto che una possa possa essere fatta non implica che debba essere fatta. Le vicissitudini di questo film, nato come prequel e poi diventato un ibrido privo di una vera identità, desideroso di emanciparsi dal padre spirituale (Alien) ma incapace di sviluppare una propria personalità sono l’aspetto più interessante di una produzione tormentata.Prometheus esemplifica le dinamiche produttive di una società che celebra la crisi creativa ribattezzandola “transmedia”. Il film è un treno che deraglia due volte. Non rispetta il codice sorgente e non sviluppa una nuova mitologia. L’ambivalenza di Prometheus attesta la duplice incapacità di innovare e rinnovare.

In breve, manca completamente la verve geniale del primo Alien, quel genio che James Cameron ha banalizzato e americanizzato con Aliens. C’è molto Cameron in questo Scott e no, non è un complimento. Il DNA è differente, ma la contaminazione tra il vecchio e il nuovo rischia di uccidere l’ospite, sul piano creativo, s’intende. Prometheus? Una promessa non mantenuta.

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