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Lsd: l’inferno per pochi dollari

[Enrico Gregorio]

Rex Miller beve martini dry e ha sempre il controllo della situazione. Anche quando è prigioniero in mano al nemico, con le mani legate strette strette dietro la schiena e lo hanno pestato, non sta in ansia, nah, lui si fa accendere una sigaretta, perché lui, Rex Miller, non perde la testa. Probabilmente nemmeno suda. I comuni mortali sudano, i Rex Miller no. I Rex Miller sono il prototipo dell’agente segreto 60’s.

Lsd: l’inferno per pochi dollari è il modello della spy story, un po’ trash, ma ehi sono gli anni sessanta e quindi è soprattutto maledettamente cool. Dimenticatevi le fiction RAI delle famiglie volemose bene degli anni sessanta e il mondo che cambia e i figli contestatori e un parco-macchiette per ogni situazione e la prima tv a colori. Girato nel cruciale 1967 (beh, ma anche il 1965 non scherza) mescola situazioni da cospirazioni internazionali con sostanze da sballo Barrettiano.

Abbiamo il già citato Rex Miller e il consueto charme consapevole che contraddistingue tutti gli agenti segreti. Abbiamo una nuova sostanza, potente e minacciosa. Abbiamo una cattivissima associazione mondiale intenzionata a inquinarci le patrie acque potabili. E come se non bastasse per Rex Miller non è una questione di salute pubblica e benessere internazionale, nooo, no perché quelli dell’associazione malefica&internazionale gli hanno pure assassinato la collega&fidanzata. Per Rex Miller è una questione personale.

Girato da Mike Middelton (pseudonimo dell’italianissimo Massimo “Mida” Puccini classe 1917) il film ha soprattutto nella prima metà numerose scene che inquadrano alla perfezione la natura spionistica della pellicola. Parlo di inseguimenti su ripidi tornanti, persone che spiano o pedinano altre persone, fughe in elicottero e diversi sicari. E tanti incredibili gadget: come una mini trasmittente dentro a un libro tascabile (anche se l’immagine della spia seduta al bar mentre sussurra nella pagina di un libro aperto evoca più imbarazzo che discrezione), armi letali nascoste nelle valigette o un microfono inserito nella testa: per attivarlo l’agente si preme la gola, sotto la mascella. (Ma aspettate a dire “che boiata”. Nella sua spy-story raccontata su Twitter, Black Box, Jennifer Egan ha inventato soluzioni non meno fantasiose).

Nonostante l’aperta citazione della sostanza emblema degli anni sessanta, la droga e i suoi effetti non sono altro che la causale (à la page con le mode del momento: sintonizzato con le cause di paura e isterismo mediatico, fossero stati gli anni cinquanta ci sarebbe stata l’atomica, gli anni dieci l’M5S) scatenante di un film di spionaggio come molti.

Il film si fa involontariamente comico quando deve rappresentare gli effetti dell’LSD. C’è per esempio un filmino propedeutico mostrato a Miller, sulle sperimentazioni della droga sui Marines. Nel filmino vediamo prima i Marines marciare ben intruppati, e dopo una decina di secondi saltare a destra e sinistra, piangere, ballare, pregare in quella che è davvero una scena di delirio collettivo. Stesso discorso quando ci viene mostrata la visuale soggettiva di chi ha assunto LSD. Immagini tremanti e fotogrammi sovrapposti, chi è sotto LSD vede il viso del suo interlocutore trasformarsi e diventare simile alle maschere africane o ai dipinti di Modigliani. Effetto ricavato dalla stessa tecnica dei fotogrammi sovrapposti usata per la prima volta da Fritz Lang nel 1922 nel suo Dottor Mabuse.

La sceneggiatura sembra formaggio svizzero tanti sono i buchi, come per esempio il braccio destro di un boss, sempre introdotto così: ”Francesca, laureata in chimica.” Quel che è chiaro è che il messaggio, per niente indiretto, della pellicola è che l’ LSD fa male, non lo devi prendere guai a te. Anche se il film in generale scatena la voglia opposta.

Una bomba di film davvero, mancano solo Lucifer Sam e Jennifer Gentle.

Se avete voglia lo potete vedere qua:

http://www.youtube.com/watch?v=diL-b14h4x4

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Trash

Recensione-continuazione della polemica del mese
Dorothy Allison, Trash, Il dito e la luna, Milano, 2006, 16,00 € (ed originale 1988)
di Silvia Fraccaro

Trash come “spazzatura” e come vengono definiti i poveri del Sud degli Stati Uniti. “White trash” poi, andando nello specifico, per definire quei bianchi, poveri materialmente e culturalmente, moralmente discutibili, privi di risorse culturali. Gente che perde tutto quel poco che ha per esempio nell’acquisto inutile di un’automobile (http://it.wikipedia.org/wiki/White_trash).
Si definisce così Dorothy Allison nell’introduzione a questa raccolta di racconti. Un termine che lei stessa ricorda affibiato alla sua famiglia e che lei quasi rivendica con un moto di ribellione e orgoglio, assieme a quel “dyke”, modo popolare e insultante per dire lesbica, in contrapposizione al più civilizzato “lesbian” connotato di coscienza femminista. E definisce così i suoi personaggi: terribili, moralmente inadeguati, quasi cerebrolesi, spesso stupidi, più frequentemente violenti, anche un po’ rozzi, privi di quelle speranze vitali comunemente condivise dal genere umano. Come i personaggi del racconto che apre la raccolta “Quella carogna venuta dal Tenessee”: storie di bambini che masticano pancetta, cresciuti male in un mondo dove regna l’abuso sessuale spesso in casa, bambini violenti a loro volta, che rubano, che non vanno a scuola, dei piccoli mostri per cui è difficile provare compassione, con degli adulti crudeli, uomini patriarcali e donne sottomesse alla vita casalinga che sfogano la loro prigionia in comportamenti meschini e autolesionisti. Sono “storie dure, scandalose, svergognate, piene di alcool, droga, incesto, violenza, tradimenti, orrori, carognate”. Il lato più sporco e sgradevole dei peggiori incubi.

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